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Nae Ionescu contro il sionismo

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Ion Motza, l’Internazionale fascista e la questione sionista

Verso la metà degli anni Trenta del secolo scorso, a caldeggiare la creazione di un’entità statale ebraica in Palestina non era soltanto una corrente dell’ebraismo europeo; il progetto sionista riscuoteva un certo consenso anche tra molti nazionalisti desiderosi di liberare i rispettivi paesi dalla presenza ebraica e per qualche anno fu preso in attenta considerazione da uno statista come Mussolini, il quale pensava di potersi servire del movimento sionista per combattere l’egemonia britannica nel Mediterraneo.

La corrispondenza intercorsa tra il Welt-Dienst di Erfurt e Ion Motza, cognato di Corneliu Codreanu (1), ci presenta un campionario significativo del dibattito che nella prima metà degli anni Trenta si svolse negli ambienti nazionalisti, fascisti e filofascisti europei intorno alla questione ebraica ed alle possibili soluzioni di essa. In particolare, le lettere che Ion Motza e il suo corrispondente tedesco si scambiarono dopo il congresso di Montreux (16-17 dicembre 1934), al quale il militante romeno aveva partecipato in qualità di esponente del Movimento legionario, ci mostrano quale divergenza di vedute regnasse tra i congressisti che erano convenuti nella cittadina svizzera in rappresentanza delle rispettive formazioni politiche.

In una lettera del 5 gennaio 1935, Ion Motza cita i nomi dei congressisti Hoornaert e Mercouris, “che avevano delle concezioni deplorevoli, forse anche di origine sospetta” (2), nonché di Somville e di Meyer, “che erano interamente sionisti, al 100%, e buoni conoscitori del problema” (3). Paul Hoornaert, della Légion Nationale Belge, aveva distinto gli ebrei “integrati”, assimilati e leali, dagli ebrei “internazionali”, agenti della massoneria internazionale; solo questi ultimi, a suo parere, dovevano essere denunciati e combattuti. Georgios Mercouris (4), ex ministro e capo di un movimento social-nazionalista greco, esprimendo una posizione condivisa dai delegati di Italia, Portogallo e Austria, si era opposto a “qualsiasi tentativo di fare una dichiarazione generale sugli ebrei, sostenendo che si trattava di una questione puramente interna, differente da paese a paese, e perciò, secondo lo spirito del congresso, si doveva lasciare che ogni nazione risolvesse il problema come voleva” (5). Quanto al belga Somville, esponente della Ligue Corporative du Travail, egli aveva appoggiato la richiesta fatta da Ion Motza, ossia che il congresso formulasse una dichiarazione generale sulla questione ebraica; ma aveva anche aggiunto che, secondo lui, la soluzione del problema “poteva consistere nel dare agli ebrei una loro patria; di conseguenza, prospettò la possibilità di concedere agli ebrei la Palestina in modo che potessero ‘esprimere la loro civiltà’” (6). Arnold Meyer, infine, capo del Fronte Nero olandese, doveva essere davvero il rappresentante di un’organizzazione “insignificante e oscura” (come si legge in un rapporto inviato a Ciano nel 1935), se al corrispondente tedesco di Ion Motza risultava sconosciuto.

Fatto sta che “l’ammirevole sig. de Somville” (7) e Arnold Mayer erano “interamente sionisti, al 100%”, nel senso che, secondo loro, la questione ebraica poteva essere risolta mediante il trasferimento degli ebrei dai paesi europei alla Palestina. D’altronde si trattava della medesima soluzione che sembravano proporre quei nazionalisti romeni che dicevano: “La Romania ai Romeni, per gli ebrei c’è la Palestina!”  Bisogna però dire che il Movimento legionario non assunse mai una posizione conforme a tale parola d’ordine. Al contrario, fin dall’inizio degli anni Trenta la stampa legionaria salutò con entusiasmo “la lotta degli arabi contro la creazione di uno stato ebraico in Palestina. Anzi, venne fondato un apposito Comitato per la propaganda a favore della lotta degli arabi” (8).

D’altra parte, un mese prima del congresso di Montreux si era dichiarato “sionista” nientemeno che Benito Mussolini, il quale non aveva ancora imboccato la strada di una politica mediterranea coerente e non aveva ancora optato per la scelta inequivocabilmente filoaraba (9). Nel corso di un colloquio con Nahoum Goldmann, il Duce si era allora espresso in questi termini: “Ma voi dovete creare uno Stato Ebraico. Io sono sionista, io. L’ho già detto al dottor Weizmann. Voi dovete avere un vero Stato [un véritable État] e non il ridicolo Focolare Nazionale che vi hanno offerto gli inglesi. Io vi aiuterò a creare uno Stato Ebraico” (10).

Sia gli incontri di Mussolini con Weizmann e Goldmann sia i rapporti più stretti con Jabotinsky e i sionisti revisionisti vengono spiegati da Renzo De Felice in questo modo: “il prosionismo di Mussolini del 1933-34 e in qualche misura ancora dei primi mesi del 1935, molto più che a porsi come mediatore tra ebrei e arabi e sostituire la propria egemonia a quella inglese in Palestina (ereditando tutte le difficoltà e gli oneri connessi), mirava – oltre che a guadagnarsi simpatie in Europa e in America, presentandosi come protettore degli ebrei (ma senza esporsi troppo per non pregiudicarsi quelle degli arabi) – ad accrescere la tensione in Palestina e, quindi, a creare – lo ripetiamo – ulteriori difficoltà all’Inghilterra in uno dei punti più nevralgici del suo impero” (11).

Nel 1935, anche Reinhardt Heydrich distingueva gli ebrei in due categorie, i sionisti e i fautori dell’assimilazione, esprimendo la sua preferenza per i primi, perché “professano una concezione strettamente razziale e con l’emigrazione contribuiscono a edificare il loro proprio Stato ebraico (…) I nostri auguri e la nostra benevolenza ufficiale sono con loro” (12). E Alfred Rosenberg: “Il sionismo deve essere vigorosamente sostenuto, affinché ogni anno un contingente di Ebrei tedeschi venga trasferito in Palestina” (13).

Quanto a Ion Motza, dal suo carteggio con il Welt-Dienst si potrebbe forse ricavare l’impressione che egli condividesse la posizione dei “sionisti” Somville e Meyer; ma sicuramente non era una posizione filosionista quella che egli aveva espressa, in termini inequivocabili, una decina d’anni prima. Infatti, pubblicando in romeno i Protocolli dei Savi di Sion, “Ion I. Motza, studente” aveva commentato l’Introduzione di Roger Lambelin con una nota a pié di pagina del seguente tenore: “Prima della guerra gli Ebrei erano divisi in sionisti e non sionisti. I primi perseguivano l’instaurazione dell’egemonia ebraica sul mondo tramite la rinascita dell’antico regno giudaico di Gerusalemme. Gli altri volevano la stessa cosa, senza però resuscitare il regno di Palestina, ma restando dispersi tra i popoli della terra, così come sono oggi. Adesso, dopo la guerra, quasi tutti i giudei sono ‘sionisti’” (14). Liquidando l’opzione sionista come una delle due tattiche dell’ebraismo mondiale, lo studente Ion Motza si era tenuto lontano dal tranello in cui sarebbero successivamente caduti due statisti “machiavellici” come Mussolini e Stalin (15).

Nae Ionescu e il sionismo

Sempre in Romania, un’autorevole riserva circa la possibilità della “soluzione” sionista fu espressa dal maestro di Mircea Eliade, il filosofo Nae Ionescu (1890-1940), quello stesso al quale Ion Motza avrebbe affidato il proprio testamento spirituale prima di partire per il fronte spagnolo.

Considerato “filosemita” da alcuni e “antisemita” da altri, in realtà Nae Ionescu ebbe col giudaismo un rapporto che non può essere liquidato in termini schematici e semplicistici: per lui “il giudaismo è una delle questioni cruciali per la comprensione generale del mondo, per non parlare della religione cristiana, punto nodale del suo pensiero e della sua posizione” (16). Il suo interesse per il giudaismo emerge fin dal 1912, quando nella tesi di licenza in filosofia pone in evidenza gli influssi d’origine giudaica nel pensiero di Spinoza; si approfondisce negli anni della guerra mondiale, quando in campo di concentramento studia la lingua ebraica; si manifesta ulteriormente allorché, rientrato in patria, affronta la questione ebraica dal versante politico sulle pagine della rivista “Ideea europeană”. “Se a tutto ciò si aggiungono i contributi delle lezioni universitarie e degli articoli di stampa nel periodo di due decenni, constateremo che ci troviamo in presenza di un vero ebraista, come la cultura romena ne ha avuto pochi” (17).

Nel 1927, quando il dottor Chaim Weizmann, presidente dell’Organizzazione sionista mondiale, si era recato in Romania per arruolare seguaci e trovare sostenitori, Nae aveva osservato come la scelta tra Sion e la diaspora, davanti alla quale gli ebrei venivano posti, rappresentasse “lo sfondo stesso del loro destino tragico” (18). Nell’anno successivo, invitato dall’Associazione delle donne ebree, tenne “un’ammirevole conferenza sulla spiritualità giudaica” (19) presso la sede sionista. Inoltre, fra tutti gli amici ebrei che Nae ebbe per tutta la vita, figura “il sionista A. I. Zissu, che egli frequenta anche a Berlino insieme col proprio figlio Radu, allora studente, negli anni del consolidamento del potere hitleriano (1933-1935)” (20).

Nella Prefazione che Nae Ionescu scrisse nel 1934 per il libro di Mihail Sebastian, alias Iosef M. Hechter 1907-1945), intitolato De două mii de ani… [Da duemila anni…] leggiamo:

Esiste tuttavia un’azione con cui gli ebrei hanno cercato di strapparsi al loro destino. È il sionismo. Il tentativo però mi sembra del tutto confuso. Certo, Gerusalemme rimane il polo magnetico del giudaismo. Ma un polo, direi, mistico. Infatti l’auspicio nostalgico “l’anno prossimo a Gerusalemme” non ha in sé nulla di positivo, ma è semmai uno di quei miti di cui parla Sorel, un mito così come è un mito il chiliasmo, eventi che non si verificheranno mai, ma polarizzano l’umanità ed hanno sugli uomini un’influenza estremamente potente, obbligandoli a regolare la loro vita in vista di quegli eventi, come se essi dovessero verificarsi.

Il ritorno a Gerusalemme è, innegabilmente, una realtà per gli ebrei. E’ la più potente realtà giudaica. Questa certezza mistica, secondo la quale Israele si ritroverà un bel giorno all’ombra del Tempio, è così profondamente radicata nella natura degli ebrei, che costoro non possono considerare la vita nella diaspora se non come qualcosa di provvisorio. Anzi, come una finzione. Infatti, se gli ebrei hanno templi e case di preghiera in tutti i loro insediamenti, non è tuttavia men vero che l’unico luogo di preghiera e di sacrificio rimane Gerusalemme e che, in fin dei conti, il vero tempio – non i surrogati della diaspora – è là. Strano stato di spirito, in cui il concetto-limite dei desideri, l’oggetto delle tendenze dolorose di un popolo intero diventano vera realtà, mentre la vita di tutti i giorni si dissolve in trasparenze illusorie, in finzioni! (21)

Per Nae Ionescu, teologo ortodosso nonché studioso della Gabbala ebraica, la dottrina deducibile dalla Scrittura è chiarissima: in seguito alle “grandi abominazioni commesse dalla casa di Israele” (Ez. 8, 6) la Gloria del Signore (Kebhod Yahweh) ha abbandonato il Tempio, donde la distruzione di quest’ultimo e la dispersione dei giudei tra le nazioni. Ma in maniera altrettanto chiara la Scrittura trasmette al teologo la “percezione visionaria” (22) di Ezechiele: il ritorno della Presenza divina nel nuovo Tempio, nel momento atemporale della restaurazione finale. Nell’attesa dell’evento metastorico del ritorno a Gerusalemme, la condizione normale dei giudei è quella dell’esilio, come ha d’altronde affermato per secoli lo stesso magistero giudaico. “I testi sacri, che prevedevano il ritorno degli esuli nel periodo dei tempi messianici, secondo i rabbini erano del tutto espliciti: il ritorno alla Terra Santa avrebbe avuto luogo solo quando lo avesse deciso Dio, e non quando i giudei volessero porre fine all’esilio. I testi, letti dai saggi, proibivano ai giudei di ribellarsi e di spezzare il giogo delle nazioni, anche quando le loro sofferenze fossero atroci. Ciò spiega l’intransigenza dei rabbini dell’Europa orientale nei confronti del sionismo” (23).

Capite dunque – prosegue Nae Ionescu – quanto fosse lontano dalla realtà giudaica il pensiero di Theodor Herzl allorché lanciò l’idea del sionismo. Stato giudaico? Evidentemente, se qualcuno riuscisse a radunare in un luogo tutti gli ebrei che vivono sulla faccia della terra e li costituisse in Stato, il problema delle sofferenze degli ebrei assumerebbe un altro aspetto; forse verrebbe addirittura risolto. Ma la domanda è: come costituire uno Stato ebraico? Gli ebrei hanno già avuto uno Stato. Anzi, lo hanno avuto più volte. Dov’è? Forse che gli ebrei hanno dovuto aspettare Theodor Herzl per scoprire l’idea di uno Stato ebraico? Come minimo sarebbe strano. Un popolo ordinario, normalmente, tende alla vita statale in maniera naturale, senza nessun piano cosciente, esattamente nello stesso modo in cui le molecole di una soluzione soprasatura tendono al cristallo. Ma ciò presso gli ebrei non si vede. Al contrario, ogniqualvolta hanno avuto uno Stato non sono stati contenti finché non lo hanno fatto a pezzi. Che cessi la vita nella diaspora? E’ un nonsenso. La vita nella diaspora è la condizione naturale stessa degli ebrei. (24)

La fallacia del progetto sionista, secondo Nae, deriva non solo dall’impossibilità pratica di radunare su un unico territorio la popolazione ebraica mondiale, ma anche dall’incapacità degli ebrei – dimostrata dalla storia – di dar vita a uno Stato ebraico che duri stabilmente nel corso dei secoli. Infatti la monarchia sorta nell’XI sec. a. C. cessò di esistere nel 932 con la morte di Salomone, suo terzo ed ultimo sovrano. Le miserande vicende dei due tronconi in cui si spezzò lo Stato fondato da Saul sono così rievocate da un ministro del moderno “Stato d’Israele”: “I membri delle due parti avevano lo stesso sangue, ma i loro rapporti si sarebbero alternati fra la rivalità e l’alleanza, e a un certo punto sarebbero degenerati in una guerra. Israele, il più grande e ricco dei due regni, determinò gli affari esteri di entrambi, riducendo Giuda ad uno stato di vassallaggio. Ma il Regno Settentrionale mancava di coesione. Era composto di molte tribù, ed era costantemente lacerato da conflitti civili. Sarebbe sopravvissuto per duecento anni prima di scomparire dalla storia quasi senza lasciar traccia” (25). Il Regno Settentrionale scomparve nel 721; il tracollo definitivo del Regno di Giuda avvenne nel 586. Dopo la conquista assira, Gerusalemme e la Palestina andarono a far parte prima dell’impero babilonese, poi di quello persiano, quindi del regno dei Tolomei. Dopo la parentesi del regno degli Asmonei, durato un secolo tra il 165 e il 63 a. C., il mondo non ha visto uno Stato ebraico per duemila anni. Più che lecita quindi l’ironia di un autore ebreo: “Forse, se uno Stato lo avessero avuto nell’anno Mille, al sorgere del Mille e cento si sarebbero già estinti” (26).

Quanto all’argomentazione di Nae, vediamone la conclusione:

Certo, la vita nella diaspora non sarebbe stata possibile, la dispersione non avrebbe potuto conservare intatto il popolo ebraico così come lo ha conservato, se ciascun ebreo individualmente e tutti quanti insieme non avessero vissuto in un’allucinante tensione la visione mistica della Gerusalemme terrena. Ma Gerusalemme ha svolto, come abbiamo detto, la funzione di polarizzatore non degl’individui concreti, bensì della spiritualità giudaica e dell’ethos giudaico. Niente di più. E’ sufficiente per conservare il popolo; ma è insufficiente per legare gl’individui in uno Stato.

E adesso, che cosa ha voluto fare Theodor Herzl, che cosa vuole il sionismo? Togliere a Gerusalemme il suo nimbo mistico, il carattere di mito che essa ha avuto finora e trasformare questa città nella capitale di uno Stato, coi suoi ministri e la sua polizia? Lo si può fare. Però si realizzerebbe soltanto un’opera effimera, come lo sono sempre stati gl’insediamenti politici ebraici; d’altra parte, se Gerusalemme diventasse qualcosa di concreto, agli ebrei della diaspora verrebbe tolto quell’unico centro unificante che ha reso loro possibile la vita fino ad oggi.

Il sionismo, senza dubbio, è un tentativo di infrangere il circolo di sofferenza della fatalità giudaica, ma è un tentativo che al massimo può produrre un risultato: la perdizione degli ebrei come popolo, a causa dello sgretolarsi del mito di Gerusalemme. Il sionismo? Un suicidio! E questa doveva essere una soluzione! (27)

Il progetto sionista, nato dalla mente di “un ebreo viennese assimilato ormai del tutto al resto della popolazione (…) [e che] conosceva poco il giudaismo e per nulla l’ebraico” (28), ha necessariamente prodotto un’entità molto più simile a una potenza colonialista che non ad una teocrazia religiosa; d’altronde “Herzl aveva immaginato uno Stato borghese, (…) sognava (…) uno Stato rigidamente laico” (29). Tuttavia il cosiddetto “Stato d’Israele” non è semplicemente uno Stato secolare in cui la religione viene usata come un ideologico instrumentum regni, ma è, secondo il punto di vista del giudaismo tradizionale, qualcosa di molto più inquietante. I giudei ortodossi hanno visto infatti nel movimento sionista, fin dai suoi esordi, un “tentativo di ‘sfidare apertamente il cielo’” (30), e nel suo prodotto politico-militare una realtà sinistra, poiché, come scrive un loro portavoce, “lo Stato d’Israele, nato dal peccato e dall’iniquità del mondo occidentale e dalla sua civiltà infernale, (…) dichiarandosi sovrano, ha detronizzato l’Eterno” (31). Non molto diversa, anche se espressa in termini più radicali, è l’interpretazione fornita da un esponente del tradizionalismo islamico, secondo il quale l’entità sionista è “uno Stato apparentemente laico utilizzato dalla controiniziazione per la realizzazione dei suoi fini: una contraffazione della teocrazia giudaica e una restaurazione sacrilega della sovranità spirituale e temporale del popolo ebraico. In ciò consisterebbe ‘l’abominio della desolazione in un luogo santo di cui parlò il profeta Daniele’ (Matteo, 24, 15), quale essa venne annunciata dal Cristo ai suoi discepoli” (32).

Nae Ionescu prevedeva (nel 1934!) che la trasformazione di Gerusalemme nella “capitale di uno Stato, coi suoi ministri e la sua polizia”, sarebbe stata “un’opera effimera, come lo sono sempre stati gl’insediamenti politici ebraici”. Anche il presidente Mahmud Ahmadinejad ha indicato più volte il carattere effimero della costruzione sionista, destinata ad essere archiviata “nelle pagine del Tempo”. Ma, mentre il presidente della Repubblica Islamica dell’Iran si limita ad annunciare la necessaria e non lontana fine del “regime d’occupazione sionista”, il teologo romeno arrivava a preconizzare “la perdizione degli ebrei come popolo”. E ribadiva il concetto equiparando il sionismo al suicidio degli ebrei.

1. Ion Moţa, Corespondenţa cu Welt-Dienst (1934-1936), Colecţia Europa, München, 2000. “Welt-Dienst, ‘Servizio mondiale’, è il nome dell’organismo fondato nel 1933 da Ulrich Fleischhauer. [...] Nel 1933 Fleischhauer prese contatti in vari paesi [...] ai fini della creazione di un ‘ufficio di assistenza tecnica’ specializzato nella raccolta di notizie sulle attività dell’ebraismo, nella controinformazione e nella propaganda. Il Welt-Dienst poté usufruire dei finanziamenti del Ministero della Propaganda e, a partire dal 1937, dell’ufficio di politica estera diretto da Rosenberg” (C. Mutti, Prefazione a Ion Motza, Corrispondenza col Welt-Dienst (1934-1936), Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1996, pp. 5-6).

2. Ion Motza, Corrispondenza col Welt-Dienst (1934-1936), cit., p. 44.

3. Ibidem.

4. “Padre della famigerata Melina” (Michele Rallo, I fascismi della Mitteleuropa, Edizioni Europa, Roma, s.d., p. 65).

5. Michael A. Ledeen, L’internazionale fascista, Laterza, Bari, 1973, p. 158.

6. Ibidem.

7. Ion Motza, op. cit., p. 44.

8. Dragoş Zamfirescu, Legiunea Arhanghelul Mihail de la mit la realitate [La Legione Arcangelo Michele dal mito alla realtà], Editura Enciclopedică, Bucureşti, 1997, p. 113.

9. Cfr. Enrico Galoppini, Il Fascismo e l’Islam, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2001.

10. Meir Michaelis, Mussolini e la questione ebraica, Comunità, Milano, 1982, p. 84.

11. Renzo De Felice, Il fascismo e l’Oriente, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 310.

12. Émmanuel Ratier, Les guerriers d’Israël, Facta, Paris, 1995, p. 78.

13. Ibidem.

14. ”Protocoalele” înţelepţilor Sionului, traduse direct din ruseşte în franţuzeşte şi precedate de o întroducere de Roger Lambelin, în româneşte de Ion I. Moţa, student [I “Protocolli” dei Savi di Sion, tradotti direttamente dal russo in francese e preceduti da un’introduzione di Roger Lambelin, versione romena di Ion I. Motza, studente], Libertatea, Orăştie, 1923, p. 14, nota 2.

15. Leonid Mlecin, Perché Stalin creò Israele, Sandro Teti Editore, Roma, 2008.

16. Dora Mezdrea, Nae Ionescu. Biografia, vol. III, Editura Istros, Brăila, 2003, p. 346.

17. Dora Mezdrea, op. cit., ibidem.

18. N[ae] I[onescu], Între Sion şi diaspora, “Cuvântul”, III, 946, 4 novembre 1927.

19. Mihail Sebastian, Cum am devenit huligan, in De două mii de ani…, cit., p. 276.

20. Dora Mezdrea, op. cit., p. 350.

21. Nae Ionescu, Prefaţa [Prefazione], in: Mihail Sebastian, De două mii de ani…, Humanitas, Bucureşti 1990, pp. 22-23.

22. Henry Corbin, L’immagine del tempio, Boringhieri, Torino, 1983, p. 177.

23. Ilan Greilsammer, Laïcs et religieux en Israël, in “Les Cahiers de l’Orient”, 54, p. 137.

24. Nae Ionescu, Prefaţa, cit., p. 23.

25. Abba Eban, Storia del popolo ebraico, Mondadori, Milano, 1971, p. 38.

26. Ariel S. Levi di Gualdo, Erbe amare. Il secolo del sionismo, Bonanno Editore, Acireale-Roma, 2007, p. 142-143.

27. Nae Ionescu, Prefaţa, cit., pp. 23-24.

28. James Parkes, Gli Ebrei e la diaspora, Mondadori, Milano, 1966, pp. 262-263.

29. Eugenio Saracini, Breve storia degli ebrei e dell’antisemitismo, Mondadori, Milano, 1977, pp. 93-94.

30. Isidore Epstein, Il giudaismo, Feltrinelli, Milano, 1967, p. 270.

31. Emmanuel Lévyne, Judaïsme contre Sionisme, Cujas, Paris, 1969, p. 20.

32. Abd ar-Razzaq Yahya (Charles-André Gilis), La profanation d’Israël selon le droit sacré, Le Turban Noir, Paris, 2008, pp. 58-59.


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